
Qualche giorno fa su LinkedIn ho ricevuto la richiesta di collegamento da una mia docente universitaria del corso di laurea in Psicologia dell’organizzazione e della comunicazione. Sono passati parecchi anni da quando frequentavo l’università, ho finito gli studi nel 2011 e di alcune cose di quel periodo mi resta un ricordo parecchio sbiadito.
Di lei però mi sono ricordata subito appena ho letto il nome, e mi ricordo di lei non solo per gli insegnamenti (conservo infatti un buon ricordo di molti altri docenti universitari) ma perché fu forse l’unica a guardare il mio volto oltre il libretto universitario. Si rivolse a me come persona piuttosto che a me come entità studentesca.
Già dalla scuola, e ancor di più all’università, ci abituiamo ad essere considerati alla stregua di numeri. Siamo numeri e nomi in un registro di classe e poi, crescendo, diventiamo le personificazioni dei nostri libretti universitari quando c’è da scrivere materia e voto in sede d’esame. Certo, non tutti i docenti si fermano alla superficie e credo che un bravo docente non vorrebbe mai ridurre l’attività dell’insegnamento a una serie di procedure ma è innegabile che gran parte di quel lavoro consista anche nel verificare le conoscenze dello studente e sbrigare la pratica burocratica della registrazione del voto. Allo stesso tempo il compito dello studente sta in gran parte nel prepararsi all’esame in un turbine di lezioni e appelli che a volte non ci fa approfondire e godere appieno la scelta formativa che abbiamo fatto.
Con le dovute eccezioni, insomma, la formazione assume spesso le sembianze di un lavoro che consiste nella timbratura del cartellino con in più oneri, doveri da assolvere e quella percezione di un tempo che sfugge in cui tutto va fatto entro date e periodi ragionevoli se non si vuole rischiare di restare indietro nel treno delle occasioni lavorative.
Un po’ tutti, volenti o nolenti, nel grande calderone dei rituali e delle pratiche da sbrigare rischiamo di ridurre gli avvenimenti (in ogni contesto) a una serie di faccende da portare a termine. Siamo però anche capaci di trovare quella luce, quell’occasione di confronto, il docente particolarmente sensibile o lo studente che si distingue dagli altri non solo per merito ma anche per la sua storia personale e la sua indole.
Perché mi sono ricordata subito della mia docente universitaria quando mi ha intercettato su LinkedIn?
Avevo già raccontato ad alcune persone questo episodio che mi colpì e mi lega a lei ma oggi, a distanza di 10 anni, penso che sia interessante raccontarlo a tutti perché tutti potreste ritrovarvi, in generale, in questo incontro di vita che mi ha cambiato in parte le prospettive.
Durante le sue lezioni affrontammo il tema della gestione delle risorse umane e furono molto interessanti perché lei ci stimolava a simulare colloqui di selezione e a immaginare le domande che avremmo potuto fare ai candidati, a ipotizzare anche le relative risposte ricostruendo situazioni tipo da analizzare. Era anche un modo per conoscerci tutti meglio, non solo dal punto di vista accademico. Sarà per questo che poi ho sviluppato la passione per le interviste sul mio blog Frasivolanti? Forse.
Le sue lezioni – dicevo – erano ricche di stimoli, scatenavano confronti e riflessioni profonde, ci sentivamo tutti parte attiva e tutti chiamati a partecipare arrivando anche a conclusioni inaspettate.
Di questa docente mi è rimasto impresso lo stile, la sua voglia di renderci parte attiva, i suoi pungolamenti, le sue considerazioni a seguito dei nostri confronti in aula. Con lei eravamo davvero attori della lezione! Quello che mi rimase impresso di lei però fu anche ciò che mi disse in sede di esame.
Da qualche suo accenno durante le lezioni, avevo capito che aveva visto in me qualche intuizione nel mio modo di porre le domande, e nelle domande stesse che proponevo durante le simulazioni di colloquio. Forse all’esame quindi si aspettava da me un exploit migliore. L’esame non andò male, ma non fu nulla di esaltante. Non presi un brutto voto, tuttavia prima di congedarmi e scrivere il verdetto sul libretto la docente mi chiese “Conosci la parabola dei talenti?”.
Lì per lì non capii cosa intendesse, nel senso che non sapevo dove andasse a parare e cominciai a temere che volesse mettermi un voto basso o propormi di rifare l’esame. Mi sembrò una domanda scesa sulla mia testa dal nulla.
Ricordavo vagamente quella parabola, nonostante i miei trascorsi nell’Azione Cattolica, e cominciai a farfugliare qualcosa che somigliava a un “sì”.
Intravedendo un punto di domanda nei miei occhi, consapevole forse che temessi una specie di rimprovero, la docente chiarì subito la sua domanda dicendomi che per lei io ero come il personaggio della parabola che va a nascondere il talento ricevuto e lo sotterra. Non ricordo le parole precise che usò – è passato troppo tempo – ma ricordo che il senso era: il tuo esame sarebbe potuto andare meglio se avessi messo più a frutto ciò che sai e ciò che sei e non ti fossi accontentata di fermarti dove ti riesce più facile.
Il discorso che mi fece fu veloce ma denso di input per me. E da allora non l’ho dimenticato. Voleva dirmi che il talento io lo avevo nascosto: quello che forse aveva intravisto in me durante le lezioni, non corrispondeva con il risultato a cui ambivo in sede d’esame. Secondo lei preferivo fare il minimo sindacale, ottenere un risultato dignitoso senza cercare altro perché ambire ad altro costa impegno, vuol dire mettersi in gioco e a volte anche fare un po’ di sacrificio.
Dopo questa spiegazione mi sentii lusingata in realtà, l’idea di avere un talento mi ringalluzzì parecchio. Ma di fatto credo che ognuno di noi abbia un talento, più o meno nascosto, e credo che la differenza stia nello sforzo di mettere a frutto quel talento e di non lasciarlo morire senza dargli la linfa per crescere. Non te ne fai nulla del talento se non vuoi usarlo o non sai come usarlo.
Penso di aver fatto spesso lo stesso errore nella mia vita: dare per scontato che non potessi ambire a grandi traguardi, dare per scontato che ciò che potevo fare io in realtà era comune a molti e che non fosse nulla di speciale. Questa visione aiuta molto a farti restare con i piedi per terra, ma non ti aiuta quando si tratta di prendere le redini della tua vita, quando sai che con poco sforzo in più potresti eccellere ma rinunci per pigrizia.

Io ho rinunciato a molte cose per pigrizia e ogni tanto quella domanda della mia docente universitaria mi torna in mente. La conosci la parabola dei talenti?
E voi la conoscete la parabola dei talenti?
Quand’è che avete dato per scontato quello che potevate fare, quello che troppo comunemente ormai viene chiamato “talento” e viene privato spesso del suo significato più limpido e reale?
Tornando alla parabola, anche i non credenti avranno ritrovato il messaggio di quella storia nella propria vita. Quando vi siete trovati a scegliere o a dover capire cosa sapevate fare? Non è tanto il concetto scolastico “è bravo ma non si applica” quanto più l’idea che coltivare se stessi possa costare fatica. Non credo neanche sia una questione di amor proprio mancato ma piuttosto di propensione all’impegno.
Anche coltivare se stessi è un lavoro. Anche quello in un certo senso può diventare un talento perché è troppo facile gongolarsi nell’idea di poter essere meglio senza tuttavia far nulla per esserlo.
Dunque il talento non va solo posseduto e conservato in una teca come una bomboniera. Va sporcato, va macchiato, va sgualcito e lavato, va modificato se occorre. In definitiva va usato, perché altrimenti non appartiene a nessuno e non appartiene neanche più a te. È come una matita in mano a chi sa disegnare: se chi ce l’ha in mano non disegna, che senso ha averla?
Quindi dire che hai talento non ha senso. Sapere che ce l’hai davvero e che sai usarlo o stai capendo come usarlo, quello sì che ti rende speciale! La dignità poi te la restituisce quando non permetti a nessuno di rubarti quel talento o calpestarlo usandolo a proprio vantaggio.
“La parabola parla di un signore che parte per un viaggio e affida i suoi beni ai suoi servi. A un servo affida cinque talenti, a un secondo due talenti e a un terzo un talento. I primi due, sfruttando la somma ricevuta, riescono a raddoppiarne l’importo; il terzo invece va a nascondere il talento ricevuto e lo sotterra. Quando il padrone ritorna apprezza l’operato dei primi due servi e condanna, invece, il comportamento dell’ultimo.”
Laura Ressa
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