
Uno degli attori del film “Cuori puri”, Stefano Fresi, in un’intervista ha detto che restare puri in senso totalizzante può frenarci e che in qualche modo il muro che innalziamo per difenderci dal mondo deve inevitabilmente infrangersi per favorire l’incontro con l’altro, lo scambio e, infine, la crescita. Non possiamo, e non riusciamo, a restare granitici dietro le nostre certezze iniziali, dietro i dogmi, dietro le imposizioni degli altri sulla nostra vita. Perché la vita è curiosità, è nei nostri errori, è un’evoluzione continua e segue un moto costante anche quando è difficile accettare di potersi lasciar portare da quel moto. Vorremmo proteggerci nelle nostre calde sicurezze, nei confini di filo spinato e nelle gabbie, senza tuffarci mai.
Correre per scappare, ma anche correre per venirsi incontro e coprire distanze fisiche e mentali: questo fanno i due protagonisti del film, Agnese e Stefano. Mondi lontani che si cercano. In quella corsa, che è una costante nel film, ci sono i loro gusci, quelli che indossano per vivere e difendersi, quelli che vorrebbero spaccare. Rompere il guscio è il passo necessario per vivere, per esserci, per liberarsi da una purezza che è una gabbia, per colmare quei vuoti che se riempiti li renderebbero migliori.
L’opera prima di Roberto De Paolis è una carezza delicata e una corsa forsennata in cui le barriere sono altre protagoniste del racconto, sono le protezioni da scavalcare, le urla, la rabbia, la vergogna, il respiro affannoso e il sole che acceca e fa guardare di sbieco i protagonisti mentre in quegli sguardi entrambi nascondono incertezze e pudore. Questo film racchiude un’educazione sentimentale non comune, di un cinema che si fa inquadratura stretta sulla realtà e che della realtà coglie gli aspetti più sinceri, più sporchi. Un film che non si arroga la pretesa di dire cosa sia giusto e sbagliato e non distingue con l’accetta i buoni dai cattivi.
L’idea che mi ha trasmesso è che nessuno può dirci come si fa, però ci possiamo aiutare a vicenda a trovare un modo: per vivere, amarci, far entrare qualcuno nella nostra vita, guardare alle vite degli altri pensandole sotto una luce nuova.
I filtri e le barricate che ci imponiamo per distaccarci e proteggerci (in questo caso uno dei filtri è la fede religiosa che però non viene connotata negativamente ma calata nel contesto di quella comunità) non fanno che spingerci a vivere secondo precetti e contingenze che non sempre scegliamo. A volte ci capitano, e a quelle circostanze cerchiamo di adattarci anche quando sappiamo che la nostra strada dovrebbe andare nella direzione opposta.
Ma il film va ancora più a fondo di così perché non mette al centro il giudizio, non dà la colpa alla religione, alle dinamiche sociali, alla mancanza di lavoro e di prospettive, al quartiere, agli zingari, ai genitori, al tessuto culturale in cui i personaggi vivono. La bellezza della storia sta proprio nella capacità di entrare nella realtà senza designare colpevoli. A proposito di questa spinta a ricercare e studiare la realtà dei territori e delle persone, vi invito ad ascoltare una lunga e bella intervista al regista Roberto De Paolis perché aiuta ad entrare nello spirito con cui il film è stato pensato e girato e aiuta anche a capire davvero il punto di vista di chi ha scritto e recitato la storia in modo interscambiabile. Il regista ha ammesso infatti che la storia non si regge solo su personaggi scritti sulla carta ma su persone realmente incontrate (a cominciare dal sacerdote sino ai ragazzi del quartiere romano di Tor Sapienza in cui il film è ambientato), e ciascuno degli attori ha portato una parte di sé contribuendo in maniera decisiva a dare una direzione al film.
Ci sono racconti in grado di scatenare ossessioni gentili in chi li guarda, una voglia di rifletterci ancora molto dopo averli visti.
“Cuori puri” è uno di quei film. E io sono rimasta molto colpita dalla storia e dal modo in cui è stata pensata, realizzata e recitata. Sono rimasta colpita a tal punto che ho rivisto il film quasi tutti i giorni per tre settimane di fila, ho approfondito meglio i linguaggi usati e gli aspetti un po’ più tecnici ascoltando e leggendo varie recensioni.
Il concetto di purezza in “Cuori puri” non sta tanto nelle regole imposte ma nel profondo di noi stessi, nella ricerca della nostra identità, nel modo in cui facciamo nostre le imposizioni, nel tentativo di restare a galla in mezzo alle paure custodendo quella purezza nelle azioni intese come limpidezza. Non sappiamo fino a che punto quella voglia di purezza sia un ostacolo alla libertà e non è un caso che la protagonista Agnese, in dissidio e in bilico tra il suo ruolo di figlia e quello di giovane donna, compia 18 anni proprio nel giorno in cui incontra di nuovo Stefano dopo il loro primo scontro iniziale.
Il film naviga tra le emozioni di una storia d’amore che assomiglia ai primi innamoramenti, ma con la consapevolezza di un sentimento reale, dei blocchi personali e sociali che impedisce di viverlo davvero, della paura frenante di donarsi all’altro rompendo così quel fragile equilibrio di imposizioni e di dover essere.
Agnese, 18 anni, ha sbirciato il mondo solo dall’interno di una bolla fatta di educazione cattolica, vista come strumento per prepararsi al mondo, e di una corazza materna dura e ansiogena che la tiene alla larga da tutti.
Stefano vuole apparire duro ma vuole anche redimersi dal suo passato e fare la cosa giusta. Si affanna, cerca di non tornare nei “brutti giri” lavorando come guardia di un parcheggio confinante con un campo rom, ha un passato e un presente familiare problematico, come accade nella realtà di certi quartieri in cui povertà, criminalità e sfratti sono all’ordine del giorno.
Agnese e Stefano non hanno nulla in comune, nulla che potrebbe legarli: lui è anche più grande. Dall’inizio del film i loro due mondi distanti si incontrano e si scontrano. Gli attori Simone Liberati e Selene Caramazza, che vestono i panni dei due giovani, sono interpreti stupendi di questa lotta tra il voler essere e la fuga. Si aggrovigliano nelle insicurezze ma si lasciano anche andare alla curiosità con una tale naturalezza da sublimare il ruolo dell’attore a portatore puro di realtà, a narratore di verità più che della maschera attoriale.
Il legame che unisce i personaggi è una favola invischiata nelle pieghe, oltre che nelle piaghe, della vita.
La tenerezza con cui Stefano, ad esempio, chiede una gomma da masticare ad Agnese prima di darle un bacio, il loro avvicinarsi e respingersi, la durezza con cui lui la affronta quando lei si allontana, la paura di lei persino di tuffarsi in acqua saltando dalle sue spalle: sono tanti pezzi di un mosaico che il regista restaura e assembla per raccontare la paura di perdere i propri appigli, la paura dell’altro e di sé stessi. Sui protagonisti però non compaiono le maschere sociali che di solito le persone indossano per sentirsi adeguate in mezzo al mondo.
E in questo la loro è vera purezza.
Agnese e Stefano appaiono sinceri, non usano stratagemmi quando stanno vicini, le loro paure sono manifeste anche nei gesti e nell’eterna lotta tra ciò che vorrebbero essere e ciò che non possono. Agnese e Stefano sono elementi pulsanti che corrono in un mondo stretto, davvero troppo stretto, pieno di costrizioni e dal quale palesemente vorrebbero scappare.
Si cercano, si perdono, si rincorrono. Tra di loro vibra una forza soprannaturale che a volte agisce per loro negli incontri casuali e che li lascia anche liberi finalmente di agire, a volte dimenticandosi del resto e perdendosi l’uno nell’altra.
Perché questo film mi piaccia così tanto forse è facile intuirlo. Agnese mi ricorda me stessa da adolescente: nel lettone con la mamma, un padre inesistente, fino a quel momento avevo frequentato solo la chiesa, rare occasioni di incontro al di fuori della mia bolla protettiva. Questo film sono io, questo film è potente perché spalanca le vite delle persone comuni e le fa diventare cinema.
Come se ciò non bastasse a dire che vale la pena non perdersi questo film, a renderlo ancora più meritevole di attenzione si aggiunge la bravura del regista e di tutti gli attori coinvolti che non lascia dubbi sul valore di questa opera prima che per me resta un’opera universale più che “prima”.
Osservate bene questi cuori puri. Vi sentirete un po’ cambiati dopo, e sarà un bene.

Don Luca (alias Stefano Fresi) in una scena del film dice:
“Gesù è come il navigatore della macchina. Che fa il navigatore quando sbagliate strada? Quando vi perdete? Mica dice: “Morì ammazzato, avevo detto gira a sinistra e sei andato a destra!!!”. No? Ricalcola il percorso, ti porta sempre a casa.”
P.S.: vi consiglio di leggere questa bella recensione, ma solo dopo aver visto il film
Laura Ressa
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Copertina: Cuori puri