

Guillaume Apollinaire ha scritto “Di tanto in tanto è bene fare una pausa nella nostra ricerca della felicità ed essere semplicemente felici.”
Sono rimasta colpita quando ho letto questa affermazione perché, da che ho memoria, ho vissuto nell’idea diffusa che si dovesse cercare spasmodicamente una felicità di cui, di fatto, nessuno sa dare una definizione certa e compiuta. Molte persone basano sul concetto di felicità percepita una vita fatta di apparenze e di abiti di felicità da indossare per dimostrare di avercela fatta. Purtroppo però una volta varcata la soglia di casa o del proprio cuore, non sempre le vite sono rose e fiori come vogliono apparire.
Dal mito della felicità al mito del fallimento?
Credo che il tempo ci stia insegnando moltissimo e che si stia uscendo dalla smania, secondo me aumentata da quando abbiamo per le mani i social, di mostrare la propria “perfezione”.
Il racconto del fallimento, che rischia di diventare anch’esso una moda al pari del racconto della felicità, prende sempre più il posto di quei lunghi sbrodolamenti di auto compiacimento sulla felicità e sulla realizzazione personale e professionale in cui chiunque di noi si sarà certamente imbattuto, tanto da scrivente quanto da lettore. Anche con l’arte di fallire bisogna andarci piano, senza che diventi qualcosa di cui vantarsi ma al contrario qualcosa da cui imparare. Meno si fallisce meglio è, a nessuno piace fallire. Ma se capita, è inutile nasconderlo.
La smania di raccontare la propria realizzazione e soddisfazione senza troppi giri di parole, dipende per certi versi anche da una cultura che ci ha indotto a seguire la cosiddetta strada a cui ognuno in teoria è destinato. Siamo stati per lungo tempo avvezzi a pensare che si debbano ricalcare le orme degli altri, di chi è riuscito nel proprio intento, di chi ha una vita invidiabile. Questo da un lato ci impone sfide interessanti ma dall’altro si traduce in uno sforzo imitativo che lascia quasi sempre in sordina il concetto di relatività. E cioè si dimentica che ogni vita è diversa dalle altre, che le occasioni e le scelte individuali fanno prendere svolte inattese a un percorso di vita che ci immaginiamo lineare.
Non è un caso se spesso sentiamo racconti che cominciano con la frase “la mia storia ha avuto risvolti inattesi” oppure con “non avrei mai immaginato di fare quello che faccio oggi”. Questo ci conferma che i tortuosi sentieri che la nostra esperienza umana imbocca sono il frutto di tantissimi fattori congiunti e che nulla si può prestabilire a tavolino o prevedere dai fondi del caffè e nelle sfere magiche.
Le tracce inattese della vita
Non siamo pennarelli che ricalcano ciò che è già stato fatto dagli altri, le nostre scelte non sono carta copiativa e non dobbiamo per forza seguire la segnaletica stradale anche quando si tratta di bivi metaforici.
Le parole che abbiamo letto e quello che ci è stato detto a proposito delle strade della nostra vita, ci hanno istigato spesso a cercare con ansia la nostra, a volerla vedere per forza nei miraggi, a immaginarla, a pensare di averne una sola già scritta in qualche manuale d’istruzioni.
Quanti di noi hanno pensato al destino o a qualcosa di già previsto e impossibile da cambiare? Quante volte una cartomante ci ha incuriosito, quante volte ci siamo quasi convinti che davvero le linee sui nostri palmi indicassero qualcosa di preciso sul nostro futuro?
Anni fa alcune persone che conoscevo si fermarono in strada a farsi leggere le carte da una cartomante. La ascoltarono con attenzione, al termine del servizio la pagarono. Una delle persone che si fecero fare le carte addirittura dopo la lettura del suo “futuro” si mise a piangere. Non so, io penso che non serva la lettura delle carte per scoprire qualcosa di sé e dacché il futuro personale non è prevedibile, perché dare soldi a un’estranea piuttosto che chiarire qualcosa con se stessi? Certo, non è facile compiere il passo verso di sé e la psicoterapia costa più della lettura delle carte, ma la pratica di illudersi (o disilludersi) presenta sempre un conto salato.
Non bado più ai cosiddetti segni del destino, che prima incuriosivano anche me, non leggo oroscopi, non osservo le linee tracciate sulle mani, non faccio caso alle fantomatiche orme lasciate prima di me.
A volte capita che quel che vuoi vedere come un’impronta nella sabbia sia in realtà l’ombra di una persona che ti cammina accanto ogni giorno. Una madre, una sorella, un fratello, un amico, a volte persino un collega.
A farci caso, il nostro tempo è cadenzato da un calpestio alternato di passi e di fasi in cui seguiamo gli esempi delle persone significative anziché una cosiddetta “strada” indefinita che non sappiamo dove porti.
Ci ritroviamo a seguire persino l’esempio di quelle persone che in una certa fase della vita avremmo voluto allontanare.
E se perdessimo le tracce lungo il cammino?
Passato e presente sembrano territori impervi non indicati nelle mappe.
Un percorso lastricato sull’asfalto, un bagnasciuga con segni di passaggio su cui spesso si infrangono le onde, un percorso dissestato di campagna, uno sterrato, una distesa di ulivi al di là dei muretti a secco, un terreno abbandonato. Seguiamo quei sentieri, quei percorsi, finché ci sentiamo sicuri di avere accanto le persone reali che ci guidano.
Prima o dopo però la strada o la spiaggia che percorriamo insieme terminano con l’ultimo lembo di asfalto o di sabbia e ci troviamo a guardare intorno senza saper decidere se fermarci o proseguire. Senza appigli.
Accanto a noi non troviamo più le certezze, le gambe cedono e come Pollicino cerchiamo molliche di pane che ci indichino la via del ritorno. Ma magari i gabbiani hanno mangiato quelle tracce, forse la corrente del mare le ha trascinate con sé, oppure noi stessi le abbiamo gettate per obbligarci a proseguire verso sentieri non ancora battuti anche senza corrimano. Restiamo soli con noi stessi, prima o poi questo accade e non ci sono destini segnati che tengano.
Quindi perché dovremmo cercare linee guida che tratteggino le nostre scelte se tutto è in divenire? Perché fa paura il non sapere e il non poter prevedere? Perché abbiamo la fissazione per le strade che ci dovrebbero condurre alla felicità?
Perché le orme da seguire ci sembrano così importanti? Perché preferiamo affidarci a un percorso fatto di segnali luminosi che ci conducano ai nostri obiettivi?
La vocazione, il sogno, l’occasione irripetibile, il treno che non passa di nuovo
Abbiamo bisogno di ancoraggi, ed è forse questa la ragione di quel fatalismo a cui fa comodo affidarsi. Ci convinciamo di dover seguire la vocazione, il sogno, l’unica grande occasione da non perdere, come se ne avessimo solo una e come se, persa quella, dovessimo accontentarci di qualcosa che non avremmo voluto, o di qualcosa di peggio.
La più grande chance è la banalità. La banalità del bene, quella nascosta, rivoluzionaria, sottovalutata come un fazzoletto di carta, semplice come una boccata d’ossigeno eppure complessa in quel che riesce a restituirci perché ciò che restituisce è quasi sempre invisibile.
Ci accorgiamo che la nostra vita è reale quando perdiamo l’equilibrio, quando stiamo per cadere per sempre.

In borsa ho conservato per molto tempo questo fazzoletto di carta. Cosa centra con le felicità?
Mi sarebbe dovuto servire per asciugare le lacrime il giorno del matrimonio di mia sorella, ma quando mi è stato porto l’ho riposto in borsa senza usarlo.
Nel tempo quel fazzoletto è diventato un cimelio e quell’oggetto mi ha ricordato che alcune lacrime vanno conservate come un taccuino su cui segnare le cose importanti. Bisogna lasciarle scorrere sul volto e chi se ne importa se solcano le guance o seccano la pelle. Certe lacrime vanno fatte asciugare al vento come la vernice fresca su una panchina appena tinteggiata, come i pomodori messi al sole sul balcone.
Non è la smania di vivere una vita speciale che ci farà sentire soddisfatti di quella che abbiamo. Seguendo questo pensiero anche un fazzoletto di carta può diventare un ricordo, e ogni momento che viviamo potrà rivelarci che peso attribuiamo alle cose e alle persone.
Lì in fondo, nel nostro cassetto delle strade possibili, un giorno ritroveremo l’aggettivo “Speciale” e la parola “Felicità” ma nel frattempo avranno perso senso.
Quanto a lungo restiamo immobili nell’illusione che le nostre esistenze debbano essere speciali? Un criceto che corre nella sua ruota ha più possibilità di uscire da quel loop rispetto a noi quando pensiamo che ci siano sempre infinite possibilità ad attenderci là fuori.
E allora mi torna in mente il verso di Walt Whitman: “Fra i rumori della folla ce ne stiamo noi due felici di essere insieme, parlando poco, forse nemmeno una parola.”
Quando abbiamo difficoltà a dare una dimensione reale a quel che ci accade, quando ci sembra che nulla abbia senso o quando, al contrario, facciamo finta che tutto per noi sia perfetto, non riusciamo a definire cosa davvero ci renda soddisfatti e rincorriamo il mito della realizzazione. Ci rifugiamo nell’imitazione, riempiamo di parole i silenzi, ci riduciamo allo scimmiottamento di una vita perfetta.
In mezzo a tutto questo, come l’acqua di un fiume, scorrono i momenti che definiamo ordinari e ci ricordiamo delle lacrime che abbiamo fatto sedimentare. A quel punto quel che definiamo “straordinario” cessa di avere così tanta importanza per noi, prendiamo le distanze anche dal giudizio altrui.
Nel prefisso “stra” vediamo solo un minuscolo orpello che si aggiunge alla solida base: un “ordinario” da riempire.
E siccome non viviamo dormendo, anche parlare di sogni diventa inappropriato quando si parla della nostra vita.
Il fazzoletto della foto qui sopra mi fu offerto quando lessi le parole di questa canzone.
“Mi hai trovato abbracciato a un ricordo
Seduto e annoiato davanti a uno specchio
E ho sentito di avere il permesso
di chiudere gli occhi e aprire le braccia.
[…]
Se potessimo spingerci insieme oltre i confini del tempo
Come certe idee, come le maree
Questa è la promessa che ti faccio”
In un tempo che forse ci ha disabituato un po’ alle promesse mantenute, possiamo promettere ancora qualcosa a noi stessi. Io ho promesso, per adesso, di non guardare ai miei giorni come se fossero irreali, come se la mia vita cominciasse dopodomani.
Perché lo straordinario è solo una sfumatura di colore dell’ordinario, un bagliore momentaneo, forse un miraggio.
Ieri ho ritrovato una bella foto scattata nell’estate 2013. A dispetto dei colori vividi che mi fanno da contorno, io non ero felice in quello scatto e neanche un po’ soddisfatta di ciò che ero o facevo.
Cercavo lavoro, cercavo attenzioni, mi illudevo su tutto: sulle amicizie, sull’amore, sul lavoro, sulle relazioni, su quello che io chiamavo destino.
Guardavo il mare come si guarda una creatura lontana di cui invidiavo la bellezza e la risolutezza.
Fu in quel periodo che cominciai a dimagrire molto, cercando di somigliare a un’immagine femminile di supposta perfezione che più volte mi era stata suggerita come vincente. Dovevo essere bella, attirare attenzioni, nella mia concezione dovevo anche essere magra e sicuramente interessante in modi in cui non mi sentivo di essere.
Vivevo una rincorsa a migliorarmi, ma senza migliorarmi davvero. Ero convinta che quelle azioni mi avrebbero resa felice. E invece non andò così.
Cosa ci si porta dietro dopo aver capito che la felicità, intesa come continuum costante o come meta da raggiungere, è una mitizzazione? Ci si porta dentro la certezza che nessuno può dirci chi dobbiamo essere e come dovremmo vivere. Ci si porta la certezza che la salute è importante, che la vita è importante, e che già queste due cose messe insieme ci fanno stare bene.
Per alcune persone però volersi bene è molto difficile ed è complicato, per chi non sa, capire come sia possibile distruggersi senza saperlo.
Ecco perché ho covato a lungo questo testo. La felicità è un falso mito, sì, come lo è la perfezione, il fallimento, l’idea di sentirsi all’apice oppure a un punto di non ritorno.
La banalità del bene invece esiste ed è costante se riusciamo a costruirla ma, per un assurdo e ingiusto paradosso, è difficile essere felici di possederla tanto quanto è difficile riconoscerla.
Laura Ressa
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Copertina: il mio fazzoletto di carta