

Una lunga chiacchierata sul mare a volte è quel che serve per fare chiarezza. In questo dialogo a più riprese svolto nel corso degli ultimi mesi, pongo alcune domande sul lavoro e sul futuro ad una giovane precaria che non smette di cercare la propria collocazione professionale.
Una storia ordinaria che è la ricerca quotidiana di un posto nel mondo ma anche di un senso più alto da dare a quello che facciamo.
Vi invito a intraprendere con me questo nuovo viaggio alla scoperta del volto precario del lavoro, perché la nostra storia è quella delle persone che guardiamo negli occhi ogni giorno, quelle che incrociamo al bar e di cui non conosciamo la storia, quelle che incontriamo al lavoro, per strada, sull’autobus.
Questa è la storia di un progetto di vita, di salite e discese, di fermate e cammini da intraprendere, di meritocrazia, di diritto al lavoro. Quello che viene spesso negato a chi vorrebbe costruire.
L’intervistata preferisce non esplicitare il proprio nome.
1) Comincio con una domanda che potrà sembrarti scontata.
Cos’è per te il lavoro?
Tanto banale non è. La prima idea che mi viene in mente quando penso al lavoro è la formula fisica Forza x Spostamento. Secondo me infatti il lavoro consiste in una serie di attività che dovrebbero garantire il funzionamento della società.
Nella Preistoria ci si divideva i compiti tra caccia e raccolta dei frutti della terra e con l’evoluzione ci si è specializzati in qualcosa di più o meno utile, più o meno faticoso o che richiedesse più o meno competenze.
Inizialmente il lavoro per l’uomo era strettamente connesso alla sopravvivenza, e quindi credo che anche oggi il lavoro debba incidere positivamente sulla vita delle persone. Questo non sempre avviene perché si è perso un po’ di vista il concetto primordiale: il lavoro è un’attività per la sopravvivenza sotto forma di reddito più che di autoaffermazione.
Mi spiego meglio facendo un paragone facile: in una gara di velocità non tutti partono dalla stessa linea. Nella società c’è chi parte più avanti perché è nato in un periodo storico migliore o con capacità migliori, c’è chi parte più indietro perché è nato in una famiglia povera o in uno stato povero o perché ha un handicap.
Dal momento che la ricchezza è nelle mani di pochi, secondo me questi fattori di partenza diventeranno sempre più importanti. Il merito subentra solo dopo ed influisce nella ricerca di un lavoro che soddisfi le proprie aspettative.
Se penso alla mia esperienza, ti dico che un lavoro riesce a soddisfarmi quando porta un beneficio concreto per la società oltre che per me come individuo.

2) A volte si rimprovera ai giovani il fatto di non scendere in piazza per protestare contro uno stato che offre poche prospettive e poco lavoro.
secondo te le istanze dei giovani verrebbero davvero ascoltate oppure la protesta sarebbe un modo per precludere ancor di più l’ingresso nel mondo del lavoro a queste persone?
Credo che la maggior parte delle persone prenda in considerazione l’idea di protestare solo quando una battaglia li riguarda personalmente o riguarda la categoria sociale alla quale appartengono. Ricordo che in passato c’erano proteste che vedevano insieme operai, studenti e pensionati.
Quando si tratta di difendere i diritti sociali dovrebbe essere coinvolta tutta la società, anche perché oggi sono proprio nonni e genitori a dover difendere i propri figli e nipoti che non possono godere di contratti adeguati né di leggi che li tutelino.
Spesso non si arriva neanche più a dimostrare se un licenziamento sia valido o meno, considerate le tipologie di contratti precari basta che un datore di lavoro alla scadenza si dimentichi di te.
Il precariato è anche questo: esentare il datore di lavoro da qualsiasi responsabilità.
3) Cos’è per te la meritocrazia e quanto conta in Italia?
Penso che in Italia nella maggior parte delle aziende o degli enti sia attuata spesso la demeritocrazia. In molti casi si scelgono i dipendenti secondo criteri di utilità e fedeltà o per convenienza politica e scambio di favori. Naturalmente esistono anche le eccezioni o i casi in cui le persone meritevoli raggiungono il contratto e il lavoro.
Credo però che la bravura o le qualifiche siano viste ancora come un ostacolo per chi è già inserito in un contesto aziendale: chi ha già una posizione professionale ben definita ha paura di essere scavalcato da qualcuno appena arrivato oppure da chi dimostra nel tempo di aver acquisito maggior competenza.
Molti datori di lavoro poi ragionano a breve termine, quindi non sempre riescono a vedere in un dipendente una persona in grado di inventare qualcosa di nuovo per l’azienda.
Si punta di più agli sgravi fiscali o ad altre agevolazioni e non riescono a ragionare seguendo un’ottica a più largo respiro. Questo modo di agire negli anni ha inevitabilmente cambiato anche il modo di intendere il concetto di bravura e di merito.
Il merito non è più fondamentale e anche se una persona è in grado di migliorare un processo o un prodotto, spesso questa capacità passa in secondo piano per far sì che gli equilibri e le scale gerarchiche in azienda restino immutate per anni.
Per me la persona meritevole è quella più idonea al lavoro da svolgere e che può portare quel valore aggiunto necessario al miglioramento dell’azienda.

4) Qual è la domanda più assurda e inopportuna che ti è stata fatta durante un colloquio di lavoro?
C’è un frasario abbastanza ampio e forse le frasi che ho sentito io non erano neanche le peggiori.
Un datore di lavoro una volta mi disse che la mansione per la quale stavo svolgendo il colloquio avrebbe previsto poche ferie e che l’orario indicato nel contratto non sempre avrebbe coinciso con quello effettivo.
Ho interpretato questa frase come un modo per verificare la mia disponibilità a fare molte ore di lavoro extra non pagate.
Altre volte mi è stato chiesto se avessi figli, ma credo che questa sia una domanda inopportuna molto frequente.
5) Ci sono aziende che lamentano la mancanza di candidati o che asseriscono che i giovani non vogliano lavorare o non accettino determinate condizioni contrattuali. Esistono poi aziende “nascoste” che non pubblicano online le proprie offerte di lavoro e che si lamentano della carenza di candidature.
Come reputi la visibilità delle aziende nello scenario domanda/offerta?
A volte i canali preferiti dalle aziende non sono quelli ufficiali e sembra quasi che certi annunci online vengano pubblicati solo per mostrare una faccia dell’azienda che a conti fatti non corrisponde alla realtà.
Mi è capitato di rispondere ad annunci di questo tipo senza ricevere alcun feedback. Naturalmente ho risposto agli annunci con criterio, senza sparare nel mucchio e verificando sempre che le competenze richieste fossero in linea con il mio percorso di studi e con le mie esperienze precedenti.
Quindi quando le aziende lamentano la scarsa voglia di lavorare delle persone non credo che sia una questione di mancanza di candidati, credo piuttosto che ci debba essere in generale maggiore consapevolezza da parte delle aziende che pubblicano le offerte e da parte di chi si candida.
6) Cos’è per te il passaparola e come dovrebbe funzionare, per professionisti e aziende, la rete dei contatti professionali utile ad avvicinare le persone alle opportunità lavorative?
Utilizzo poco LinkedIn e non seleziono i contatti in base a quanto possano essermi utili per il passaparola, ma sicuramente farsi notare in modi diversi può essere molto utile. La mia carriera lavorativa è cominciata proprio attraverso colleghi conosciuti in precedenti esperienze professionali.
Secondo me sono le aziende stesse a dover sfruttare al meglio il networking.
Si tende a pensare al passaparola come a un’attività che riguarda solo chi cerca lavoro ma anche l’azienda dovrebbe andare alla ricerca delle persone e chiedersi “per migliorare questo prodotto o servizio, di che tipo di professionalità ho bisogno?”.
Entrambi i volti della medaglia sono importanti: il networking non dev’essere una pratica a senso unico che parte solo dietro iniziativa dei singoli che cercano lavoro.
7) Conta ancora parlare di abusi di potere sul lavoro perché capita spesso che chi occupa posizioni dirigenziali abusi del proprio potere contrattuale per richiedere prestazioni lavorative gratuite o sotto pagate a giovani che coltivano la speranza di una stabilità economica.
Ti è mai capitato di assistere ad abusi di potere?
Sì, è capitato di subire abusi di potere. Del resto il mercato del lavoro oggi prevede sempre più spesso contratti precari o a scadenza, quindi le persone si piegano più facilmente ad accettare certi abusi nella speranza che il contratto poi venga prolungato o migliorato.
La “flessibilità” è un requisito fondamentale ma se ne distorce spesso il significato. La flessibilità infatti comincia ad essere sempre più spesso intesa come disponibilità a fare tutto quello che ti dicono i datori di lavoro, per un tempo illimitato e nella speranza che prima o poi le cose cambino.
8) Chi ti ha trasmesso i valori del lavoro e quali sono per te oggi questi valori?
È stato mio padre a insegnarmi il valore del lavoro. Lui ha sempre avuto una grande considerazione del lavoro e lo ha sempre svolto onestamente e con impegno.
Oggi uno degli effetti della precarietà è decidere di non lottare per paura che il proprio contratto non venga rinnovato più. Si fa presto a trovare un sostituto e quindi l’unica arma di difesa è certamente la competenza.
Mio padre mi ha insegnato che i lavoratori, e i cittadini in genere, sono tutti sulla stessa barca e che le divisioni vengono create per controllare le persone nella logica del divide et impera.

9) “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” dice la nostra Costituzione. Secondo te stiamo tenendo fede a queste parole o sono diventate solo un romantico slogan?
La Costituzione al momento la vedo più come una somma di belle parole, e non soltanto in riferimento all’articolo 1.
10) Secondo te quali fattori incidono sul futuro del lavoro?
Ci sono tanti fattori esterni che incidono. Il mondo del lavoro è subordinato e condizionato dal mondo finanziario e politico.
D’altro canto anche nelle aziende potranno cambiare molte cose perché la competenza prima o poi sarà l’unico fattore di scelta per essere al passo con l’evoluzione.
11) Cosa desideri per il tuo futuro?
Una casa, la possibilità di fare progetti a lungo termine e un lavoro stabile: cioè tutti quei traguardi che i nostri genitori hanno ottenuto in maniera naturale.
Per noi quei traguardi sono diventati sogni faticosi, ma credo che non siano ancora impossibili da realizzare.
12) Quali passi hai seguito per realizzare i tuoi obiettivi professionali e in quali ostacoli ti sei imbattuta?
Come molte persone, ho cominciato con scuola e università. Ho proseguito con i corsi formativi di specializzazione cercando di seguire le mie inclinazioni e superando volta per volta gli ostacoli che trovavo lungo la strada.
All’inizio i sogni c’erano ma erano molto vaghi e sono riuscita a dare un senso a quello che stavo studiando quando ho capito cosa avrei voluto fare nella mia vita. Man mano che il percorso si specializzava, ho scoperto le mie predilezioni.
Uno degli ostacoli che ho incontrato durante il percorso di studi è stata la grande disorganizzazione universitaria: molte tasse a fronte di servizi che non sono all’altezza, appelli saltati, mancanza di laboratori, docenti sostituiti da dottorandi, una soluzione 3+2 che non aiuta gli studenti.
Un altro ostacolo sono le poche opportunità di lavoro in determinati settori e lo scarso turnover. Anche la Partita Iva è una scommessa difficile e rischiosa perché prevede un tipo di tassazione proibitiva, inoltre in molti territori aprire un’attività o un negozio significa esporsi alla malavita. Per assurdo la cosa più facile per certi professionisti è andare all’estero.
13) Si parla spesso dell’importanza delle risorse umane: come si può però parlare dei diritti dei lavoratori se spesso manca il diritto di avere un lavoro?
Dove non c’è lavoro non ci sono diritti, quindi in quei casi si è disposti ad accettare anche condizioni gravose pur di sostentarsi.
Un altro problema è la mancanza di coscienza di classe da parte dei lavoratori: vige sempre più la regola mors tua vita mea.
14) Un vecchio proverbio dice che il lavoro si ruba con gli occhi. Da questa frase siamo sempre stati abituati a intendere la formazione sul luogo di lavoro come qualcosa di non dovuto: ognuno deve costruirsela da sé osservando ciò che fanno i colleghi.
Ti è capitato di imparare dai colleghi o di trasmettere ad altri qualcosa che conosci?
La formazione in azienda conta moltissimo ma ci sono ancora casi in cui viene posta poca attenzione a questo tema.
Spesso si accusa la scuola e l’università di non formare i lavoratori ma il compito di questi enti è fornire un metodo per acquisire conoscenze generali. È compito dell’azienda invece formare i dipendenti sulle specifiche attività.
Sarebbe bello se ci fosse una staffetta generazionale in cui i dipendenti prossimi alla pensione insegnassero il mestiere ai colleghi più giovani: in questo modo si creerebbe una sorta di storia aziendale, si andrebbe oltre il lavoro e ci sarebbe più continuità tra le generazioni.
Questo discorso non riguarda solo le competenze ma anche la storia passata dell’azienda, che rappresenta un valore aggiunto inestimabile da tramandare.
Senza un’opportuna formazione si rischia di indurre il nuovo dipendente a ripetere le pratiche consolidate solo per consuetudine senza portare nulla di nuovo in azienda.
Mi è capitato di imparare dai colleghi anche se a volte ho percepito un timore di fondo e la volontà di non svelare i “segreti del mestiere”.
I contratti attuali hanno provocato molte paure concrete ed è quindi comprensibile che si facciano certi pensieri per preservare il proprio status.
Però in tutto questo discorso c’è ancora spazio per una speranza priva di forzature: forse a salvarci davvero sarà la spinta a fare del proprio meglio in ogni circostanza.
Lavorare con cura e meticolosità nel rispetto di tutti i colleghi coinvolti magari non paga nel breve periodo, ma continuo ad esser certa che paghi sulle lunghe distanze.
Devi spingere ancora un po’ di più quando stai arrancando e hai poco fiato. Devi provare a risparmiare un po’ di ossigeno e a resistere fino agli ultimi metri prima del tuo traguardo.
Se vali, prima o poi qualcuno se ne accorgerà e ti saprà ripagare con quelli che oggi sono considerati dei lussi: e cioè lavoro, riconoscimento delle competenze, rispetto.
Chiamalo karma, chiamalo merito. Nonostante le storture della nostra società e la folta folla di privilegiati che ancora occupano i vertici in Italia, abbiamo tuttavia il libero arbitrio e il diritto/dovere morale di ritagliarci angoli di reale competenza, di meritocrazia, di attesa premiata.

Il lavoro è dignità. Il lavoro è un investimento per il futuro.
In tempi di precariato esiste la speranza? Sì, esiste, ma non è una convinzione distorta che ci vede ciechi di fronte alle difficoltà oggettive e ci fa pensare che il destino metterà ogni cosa al suo posto.
La speranza c’è ma non perché sia l’ultima a morire, c’è perché senza quella manca la motivazione. E senza motivazione mancherebbe il motore di tutto il meccanismo che ci muove, mancherebbe quel motore che può farci raggiungere obiettivi straordinari.
Le alternative che abbiamo sono: provare a cambiare il presente in meglio, stilare una lista dei nostri obiettivi senza fermarci davanti all’ostacolo, fare esperienze all’estero o in una nuova città. Il futuro si cambia in molti modi e non c’è limite alla creatività: per questo è ricco di speranza, perché è ancora tutto da scrivere.
Se la nostra sia una buona o una cattiva stella non deve interessarci, dobbiamo imparare a modellarla a nostra immagine quella stella e stare a vedere su quali vie ci conduce. Non si sfugge, dipende dalle condizioni in cui nasciamo ma per piccola parte dipende anche da noi, dipende dalle competenze sviluppate nel tempo e dal bagaglio di partenza che abbiamo ricevuto in dono.
In fin dei conti l’uomo è artefice del proprio destino e come tale può comportarsi se non vuole che questa frase motivazionale sia un solitario slogan da incarto del cioccolatino.
Buona stella, buona competenza e buona speranza mi sembrano quindi auspici azzeccati e figli del nostro tempo. Con l’accortezza però di non pensare che la speranza basti: ci devi mettere dentro tutto quello che hai.
Primo fra tutti, devi metterci la pretesa di rispettare e di essere rispettato come essere umano, come individuo, e come professionista.
Il lavoro non è un regalo. Il lavoro non è una concessione.
Il lavoro è un diritto.
Laura Ressa
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