
L’esperienza diretta sui social, la loro scoperta, il loro utilizzo a scopo personale ed infine l’impiego per fini aziendali e professionali, sono stati tutti tasselli importanti del mio percorso che mi hanno fatto comprendere alcune best practices (certamente non universali ma credo abbastanza valide), quello che può funzionare bene, in che modo essere online con la propria voce personale e, in modo distinto, con tono di voce aziendale.
Per raccontare cosa ho imparato fino a qui, e affinché tutto ciò possa essere utile anche a chi ora sta leggendo questo articolo e si trova a gestire pagine aziendali e/o profili personali su LinkedIn, trovo utile partire da un presupposto che sta alla base di tutto. Il presupposto è il seguente: un profilo personale non è una pagina aziendale, e viceversa.
Su LinkedIn (e non solo) un profilo personale non è una pagina aziendale e, viceversa, una pagina aziendale non è un profilo personale
Perché è cruciale partire da questo presupposto? Perché spesso il rischio è quello di confondere i frangenti, i ruoli, i contenuti, e di non saper gestire qualche volta anche le critiche che vengono avanzate su tutti questi elementi.
La distinzione netta tra profilo personale e pagina aziendale è lapalissiana, ma penso sia utile porre l’accento sulle precise funzioni di questi due ambienti LinkedIn distinti, sulle loro caratteristiche e sugli obiettivi che ciascuno di essi si prefigge. Il discorso è più tecnico di quanto si possa pensare e ugualmente tecnica dev’essere dunque la valutazione, da parte di un osservatore esterno, su contenuti, obiettivi, risultati ottenuti, intenzioni.
E proprio sul processo alle intenzioni casca la valutazione soggettiva. Nella frase precedente ho intenzionalmente citato sul finale la parola “intenzioni” perché è importante sottolineare che chiunque osservi un profilo personale o una pagina aziendale LinkedIn non può essere in grado di valutare oggettivamente le intenzioni che si celano dietro i contenuti, dietro le idee e dietro il modo di porre tutto questo in modo fruibile su una piattaforma social.
Sensazioni sui contenuti online: hanno fondamento?
La risposta è “no”.
A proposito della presenza su LinkedIn si può fare infatti un discorso specifico sugli obiettivi raggiunti o prefissati, sui risultati e sulle metriche disponibili per l’analisi, ma il giudizio di valore va ben oltre tutto questo. Esso è puramente soggettivo e, se non può trovare sponda in dati certi, resta una isolata e vaga sensazione e come tale priva di fondamento oggettivo. Può valere cioè per qualcuno, non per tutti. Soprattutto può variare da persona a persona. Detto ciò, è fuor di dubbio che ognuno possa sviluppare una propria percezione circa i contenuti che girano online, purché questa percezione non venga spacciata per verità universale e purché non sia usata come pretesto per dire cosa postare, dove e come. Spiegherò in seguito a cosa serve mettere in chiaro questo quando si parla di presenza online e della differenza tra profili personali e pagine aziendali.
La regola di base per divulgare sui profili personali: metterci la faccia
Il profilo personale ha di solito scopo di auto-promozione ma può essere anche uno strumento di divulgazione del proprio pensiero, oltre che del proprio lavoro e delle competenze maturate nel tempo.
Propongo qui sotto un paragrafo di un interessante articolo sul tema:
“Il profilo personale è un ottimo punto di partenza per parlare di noi, della nostra attività lavorativa, di quello che facciamo, di come ma soprattutto del perché lo facciamo, un concetto che caratterizza il cuore del magico golden circle. Cercare di interagire con altri professionisti non mettendoci la faccia, trasformando il proprio profilo personale nel brand aziendale ci fa perdere terreno e opportunità…è un po’ come cercare di centrare il bersaglio con gli occhi chiusi.“
Dunque il profilo personale parla di noi come persone, appunto, come “volti” iscritti all’interno di una comunità di altri individui che interagiscono tra di loro mettendoci la faccia e parlando a titolo personale. Nei contenuti che condividiamo o nei post che scriviamo possiamo esprimere pareri, raccontare storie, parlare di quello che facciamo nella nostra vita quotidiana, taggare altre persone oppure aziende. Tutto questo, è chiaro, va fatto nel rispetto delle policy della piattaforma e nel rispetto delle altre persone e delle aziende.
Se teniamo alla nostra brand reputation non possiamo certo svegliarci una mattina e sparare a zero su qualcosa o qualcuno facendo discorsi senza senso, diffamando, esplicitando accuse o divulgando dei messaggi di odio, fake news o altri contenuti non consentiti. Ci rimetteremmo la faccia (e non solo quella), oltre al fatto che va tenuta presente una regola generale di buon senso: abitare i luoghi online richiede anche rispetto e attenzione verso i messaggi che si decide di lasciar passare attraverso le condivisioni e la scrittura.
Attenzione ai messaggi che divulghiamo sui profili personali
L’attenzione dunque deve indubbiamente restare alta quando si tratta di divulgare contenuti online, ne va della nostra reputazione. Tuttavia questo non deve legarci né imbavagliarci. E mi spiego meglio.
Non è necessario amalgamarsi al sentire comune pur di essere accettati o per ottenere più like, commenti e condivisioni. Non è necessario divulgare gli stessi contenuti che vanno di moda in un determinato momento o i cosiddetti trend topic in voga. Essere inseriti in una rete di persone e aziende è, per me, principalmente una questione di coerenza, rispetto reciproco, onestà intellettuale, ragionamento condiviso e confronto. Che senso avrebbe ad esempio vivere la rete come un mero canale commerciale, di vendita e di auto-promozione senza innescare confronti, interpretazioni congiunte, dialoghi, dilemmi, domande?
La nostra presenza online è animata proprio dall’interazione con gli altri umani che abitano il web. Altrimenti saremmo solo macchine per la vendita e il consumo, cosa che di fatto in molte situazioni stiamo purtroppo diventando.
Non siamo macchine, evviva il confronto genuino!
Dacché non possiamo e non dovremmo operare come algoritmi, ben venga sui profili personali la scelta di aprirsi al confronto, ad una riflessione più profonda che vada oltre il sentito dire e oltre l’argomento del giorno. Chiediamoci se abbiamo qualcosa di interessante da dire su quello che abbiamo imparato dal nostro lavoro, chiediamoci cosa abbiamo imparato dagli altri, chiediamoci come potremmo migliorare la comunicazione, chiediamoci infine cosa possa innescare un confronto genuino per davvero. So che può sembrare difficile detta così, viviamo in un mondo di maschere e si finge ovunque, figuriamoci dunque quanto ampiamente si riesca a fingere su una piattaforma social.
Ma, se anche solo una piccola particella del nostro corpo crede che la società non debba essere solo guidata da parametri di opportunismo e compra-vendita di cose e persone, proviamo per una volta ad essere sinceri con noi stessi e con gli altri. Proviamo ad esprimere quel che siamo, con quella genuinità che in troppi contesti è andata scemando.
Corrispondenza tra contenuti e vero sé: cosa penserebbe di noi chi ci legge e ci conosce bene?
Ed ora torno ad un aspetto che mi sta molto a cuore: la coerenza. Come accennavo prima, essere coerenti è cruciale, sebbene si viva ormai largamente tra maschere e finzioni e riconoscere il vero sé degli altri è divenuta impresa ardua. Tuttavia non è impossibile rendersi conto di chi abbiamo attorno, le azioni sono la prima cartina tornasole per verificare in cosa davvero una persona crede e come tratta gli altri.
Accanto alle azioni, che rivelano il vero sé, esistono le finzioni, spesso ostentate proprio sulle piattaforme social. LinkedIn naturalmente non è esente da questa tipologia di utilizzo e di utenti: ce ne sono parecchie di persone che millantano, professionisti “illuminati” che ostentano la propria posizione, che scrivono solo di successi o, se si spingono su tematiche più “profonde”, lo fanno fingendo di essere bravissime persone dagli alti valori.
In tema di coerenza, credo sia importante per tutti far coincidere quel che si fa con quel che si è e con quel che si dice di essere. Altrimenti saremmo tutti una massa di finti sé che vagano in rete proponendo solo una versione super edulcorata e fuorviante di se stessi.
Chiediamoci sempre: cosa faccio e cosa scrivo? Quello che faccio corrisponde agli alti valori che voglio dimostrare a parole? Cosa penserebbe di quel che scrivo chi mi conosce per davvero?
Non illudiamoci eh, lo so che queste domande di solito il finto sé non se le pone nemmeno per sbaglio, ma perché smettere di sperare che ciò un giorno possa avvenire?
Dal profilo personale alla pagina aziendale: due mondi opposti e non sovrapponibili
Chi per lavoro si trova a dover gestire, oltre al proprio profilo personale, anche una pagina aziendale LinkedIn (propria o dell’azienda presso la quale lavora) lo sa bene: questi ambienti, come accennavo all’inizio, sono due mondi a parte, assai distanti sebbene accomunati dalla stessa piattaforma social.
La pagina aziendale è funzionale a vari scopi: a promuovere le attività e i prodotti di un’azienda, a divulgare notizie inerenti il settore di riferimento, a fare da cassa di risonanza sui risultati e sulle iniziative aziendali, a condividere contenuti attinenti al proprio mercato, a fidelizzare dipendenti, partner, clienti e stakeholders, a diffondere il tono di voce aziendale e a definirlo in modo chiaro rispetto a quello di altre aziende. Le sfaccettature di questo strumento social sono tante, così come vari sono i possibili utilizzi e gli obiettivi da raggiungere: ad esempio, più traffico sul sito web, maggiori richieste di demo prodotto, brand awareness e molto altro ancora.
L’errore che si può commettere, quando ci si trova a gestire sia il proprio profilo personale sia una pagina aziendale, è confondere i due luoghi, pensarli sovrapponibili o in qualche modo speculari. Si tratta di un errore serio perché è chiaro che sulla pagina aziendale non possiamo esprimere pareri puramente personali o condividere le foto delle nostre vacanze ed è altrettanto chiaro che la nostra bacheca personale non deve diventare strumento di mera divulgazione aziendale.
Esistono per questo motivo i cosiddetti brand ambassadors, e se un’azienda necessita di tali figure deve inquadrarle e pagarle appropriatamente per far sì che essi facciano da ambasciatori, per l’appunto, dell’azienda e del marchio sui loro profili personali.
Per chi fosse interessato a questo tipo di figura da integrare in azienda, in Italia un brand ambassador guadagna € 2 942 / Mese.
“Lo stipendio medio per brand ambassador in Italia è € 35 300 all’anno o € 18.10 all’ora. Le posizioni “entry level” percepiscono uno stipendio di € 25 000 all’anno, mentre i lavoratori con più esperienza guadagnano fino a € 109 200 all’anno“. (fonte: Stipendio per Brand Ambassador in Italia per il 2023)
Il confine tra “personale” e “aziendale” c’è, si vede e lotta con noi
Il confine tra profilo personale e pagina aziendale su LinkedIn a questo punto dovrebbe essere ben chiaro, e ben chiaro dovrebbe apparire ormai perché sia fondamentale distinguere e tenere separati questi due luoghi così diversi fra loro per contenuti, obiettivi e risultati attesi.
Se ancora non dovesse essere chiaro dal discorso precedente, cerco di entrare più nel dettaglio portando all’attenzione un esempio che mi è stato raccontato da un amico che lo ha vissuto sulla sua pelle sul luogo di lavoro.
Immaginiamo che un dirigente o un manager aziendale (potrebbe essere uomo o donna, il genere non conta) si aspetti che i suoi dipendenti pubblichino sui propri profili personali LinkedIn contenuti aziendali, quei tipi di contenuti atti cioè a far circolare i messaggi tipici di una pagina aziendale apposita. Poniamo pure il caso che il dirigente o manager in questione pensi che pretendere questo dai dipendenti sia giusto e che sia libero di pronunciarsi sulla qualità o la tipologia di contenuti condivisi dai dipendenti.
Immaginiamo che voglia fare tutto questo. Sbaglia, è molto semplice.
E sbaglia per un motivo altrettanto semplice: sbaglia perché il parere e la valutazione soggettiva su ciò che qualcuno sceglie di pubblicare sul proprio profilo personale è qualcosa che si basa su mere sensazioni del momento, a maggior ragione se non esistono dati oggettivi a suffragare quella sensazione o interpretazione personale.
Il dirigente, o il manager, che suggerisce velatamente o addirittura pretende che i suoi sottoposti siano brand ambassadors su base volontaria o per il bene aziendale, sbaglia doppiamente perché non solo non rispetta la privacy sulla scelta di ciò che ciascuno vuole pubblicare sul proprio profilo personale ma inoltre sfrutta il proprio ruolo privilegiato per giudicare la qualità dei contenuti divulgati dai dipendenti sulle bacheche personali.
Sul profilo personale ognuno è libero, entro i termini citati all’inizio di questo articolo, di esprimersi nel rispetto e nella coerenza che i luoghi online richiedono.
Una cosa è certa: a chi sa come comunicare, quali siano i propri diritti e doveri, quali confini non travalicare, come esprimere le proprie idee e posizioni, resta la certezza di poter utilizzare ancora con cognizione di causa la parola e i luoghi online.
Le aziende sono fatte di persone, i profili LinkedIn anche. Come migliorare employer branding e employee advocacy?
Sentirsi integrati all’interno del proprio contesto lavorativo è fondamentale e dona anche l’input necessario e sufficiente affinché le persone decidano di farsi portavoce e ambasciatori dei contenuti aziendali anche attraverso i propri profili personali.
Come puntare dunque su questa spontanea azione di condivisione e partecipazione attiva delle persone? Come attivare insomma un employee engagement efficace?
In un bel articolo pubblicato su Digital4Executive – Digital360, Alice Siracusano, CEO della content agency LUZ, afferma:
“Per trasformare i dipendenti in brand ambassador, gli ambasciatori del brand e dei valori dell’azienda occorre, prima di tutto, che l’azienda promuova quotidianamente politiche che mirano a valorizzare l’individuo e le sue specificità. I dipendenti che si riconoscono nei valori aziendali sono più propensi a fare da cassa di risonanza e trasferire questi valori all’esterno. Spesso, poi, i progetti di employee engagement fanno leva sulla volontà dei singoli di apparire e sentirsi protagonisti della vita dell’azienda, ciascuno con le proprie specificità. […]“.
Nel denso e interessante approfondimento Guida all’Employer Branding: come rendere l’azienda un brand di successo, pubblicato sul sito di Radical HR, in un paragrafo si afferma che:
“[…] L’engagement dei dipendenti – vale a dire il livello di coinvolgimento, motivazione e connessione emotiva dei dipendenti nei confronti del loro lavoro e dell’organizzazione in cui lavorano – è un fattore chiave per aumentare la produttività e il successo dell’organizzazione. Un employer brand autentico e coinvolgente può fungere da potente strumento per stimolare l’engagement dei dipendenti. Quando i dipendenti si identificano con i valori e la missione dell’azienda, sono più motivati a dare il massimo e a contribuire al successo complessivo. L’employer branding crea un legame emotivo tra i dipendenti e l’organizzazione, alimentando una cultura di collaborazione, innovazione e dedizione […]“.
Un ruolo di rilievo riveste inoltre la cultura organizzativa. Ne ha parlato Laura Pesce nell’articolo Employee Advocacy: perché è importante per la cultura aziendale pubblicato su This MARKETERs Life:
“[…] Avviare una strategia di Employee Advocacy non è semplice: molto spesso le aziende si dimenticano che il loro primo cliente, la prima persona da fidelizzare, è il dipendente. L’organizzazione modello è quella che punta a valorizzare l’individuo, a prendersi cura delle condizioni di lavoro, del suo benessere e a sviluppare il senso di appartenenza. Se si verificano questi presupposti, i dipendenti saranno più inclini a condividere la loro esperienza lavorativa in modo positivo ed entusiasta.
Sarà fondamentale quindi creare una cultura e un ambiente aziendale in cui si possano riconoscere e rispecchiare. La cultura aziendale è definita come l’insieme di valori, credenze e princìpi condivisi da tutti i membri di un’impresa. Agli occhi del dipendente, essa rappresenta la ragione e la motivazione che lo spinge ad alzarsi la mattina per andare a lavorare, al di là dell’aspetto economico. […]“.
L’articolo Come usare l’employee advocacy nel Content marketing B2B, pubblicato da Digital360 HUB, si focalizza anche su ricompense e formazione per i dipendenti:
“[…] Come implementare una strategia di employee advocacy che risulti vincente? È importante impiegare strumenti e metodologie appropriati. […] La formazione continua dei dipendenti è fondamentale e non va mai sottovalutata: assicura che le iniziative di advocacy si allineino in modo efficace e coerente con i valori e gli obiettivi dell’azienda. Infine, è fondamentale creare un ambiente di lavoro che incoraggi e ricompensi i dipendenti coinvolti, istituendo un sistema di incentivi e offrendo opportunità di crescita professionale. […]“.
Per concludere, ecco cosa ho imparato sulla differenza tra profili personali e pagine aziendali e sull’utilizzo di LinkedIn:
- profilo personale e pagina aziendale LinkedIn sono due ambienti totalmente diversi da utilizzare con cura ma in modi differenti;
- il giudizio di valore sui contenuti condivisi sui profili personali altrui non ha senso di esistere se non suffragato da riferimenti e dati oggettivi e un’azienda non può pretendere che i suoi dipendenti siano brand ambassadors senza aver pianificato una strategia dedicata a questo;
- per favorire dunque employer branding e employee advocacy (anche sui social) un’azienda deve valorizzare l’individuo e le sue specificità, favorire l’identificazione dei dipendenti con i valori e la missione aziendale, aver cura delle condizioni di lavoro e del benessere, sviluppare il senso di appartenenza e creare un ambiente di lavoro che incoraggi e ricompensi i dipendenti.
Laura Ressa
Copertina: immagine tratta da Pixabay