

In questi giorni sogno spesso il portone di un palazzo, poi le sue scale alte, rovinate dal tempo. Salgo.
Al termine dell’ultima rampa vedo davanti a me una porta marrone e dietro quella porta una piccola casa con qualche mattonella sgangherata, un tavolo con le gambe traballanti e pieno di centrini bianchi, una cucina, una camera da letto con molte foto in cornici poggiate sui mobili, un vaso con un mazzo di fiori (quasi sempre margherite), vestiti riposti nell’armadio e un grande cassone. Ne sono molto incuriosita, vorrei aprirlo per guardare quali oggetti contiene.
Mi sembra di sentire un richiamo da dentro a quel cassone. Sono gli oggetti e i ricordi che sono stati messi lì e mi chiedono di aprire per vederli.
Nella camera da letto c’è un grande armadio, e in una delle ante c’è uno specchio in cui mi rifletto, bambina. Apro l’anta, e dopo essermi specchiata cerco la scatola di biscotti proprio lì sulla mensola. Sento già il profumo anche se la scatola è chiusa.
Sulla mensola accanto a quella dei biscotti ci sono i crackers che mangerò inzuppati nel tè.
Mi sposto, chiudo l’armadio. Faccio qualche passo per tornare nel soggiorno e su una sedia in vimini, accanto alla porta della stanza, vedo la scatola colorata con dentro bottoni, filo per cucire, aghi piccoli e aghi da lana, un ditale, una specie di uovo che si usa per cucire le calze, qualche spilla da balia.
Sono in casa di mia nonna. In quei sogni torno nelle sue stanze.
Prima di chiudere gli occhi, la notte, ripenso a quei luoghi, a quel portone, a quelle scale. E le sogno.
Ricordo il giorno in cui ero per strada appena sotto il balcone della nonna. Dissi “ogni volta che andavo via da lei e svoltavo l’angolo della strada, la nonna voleva che mi girassi e guardassi in alto per salutarla. Lei affacciata al balcone mi guardava e aspettava quel saluto ogni volta”.
L’ho rifatto quel gesto, il saluto prima di girare l’angolo e di sparire dai suoi occhi. L’ho rifatto anche se lei non era affacciata più lì sopra: sapevo che, in qualche modo, avrebbe aspettato il mio saluto.
Lo rifarei anche ora, se potessi passare di nuovo sotto quel portone. Soprattutto ora che so che quelle stanze della sua casa sono rimaste vuote da quando se n’è andata lei.

A breve l’edificio in cui abitava mia nonna verrà demolito, per costruirne un altro credo.
Quelle stanze non esisteranno più, al loro posto arriveranno stanze nuove, nuovi materiali, nuove mattonelle, evidentemente anche nuove persone, nuovi armadi, nuovi aghi e fili, nuovi fiori, nuove foto poggiate sui mobili.
Il passato verrà buttato giù, forse perché troppo vecchio per reggere ancora ai colpi del tempo. Ogni cosa, le persone ma anche gli oggetti, hanno un tempo.
E la fine ci spaventa, la nostra fine ma anche quella delle cose che ci sono appartenute e di cui dobbiamo prima o poi liberarci.
Per questo penso agli oggetti come a qualcosa a cui aggrapparci per non sentire la fine. Le case, le auto, i mobili, i soprammobili: tutto ci sembra così indispensabile forse perché abbiamo bisogno di toccare ciò che ci appartiene per credere che la fine sia un affare che non ci riguarda.
Le persone che ancora abitavano nel palazzo in cui ha vissuto mia nonna hanno trovato altri luoghi in cui vivere.
Molte di quelle case in realtà erano giù vuote da tempo, tutte abitate in passato da persone anziane che negli anni sono andate via. Quelle stesse persone che da bambina salutavo mentre scendevo o salivo le scale, che mi hanno visto avere paura delle scale e del vuoto ma mi hanno visto anche sorridere.
Nei miei sogni la paura che le scale crollino c’è ancora, la paura del vuoto o di non riuscire a camminare, di non riuscire a fare un gradino alla volta e rotolare giù senza potermi aggrappare alla ringhiera.
La paura di scivolare giù dal balcone, che mi sembrava così fragile per reggere sia me che la nonna. Quella paura c’è ancora, anche se invece abbiamo passato tantissimi pomeriggi a “dire chiacchiere” lì sopra!
Lei seduta alla sedia dei grandi e io accanto sulla sediolina in legno che mi piaceva tanto.
Quelle stanze sono vuote, adesso. Le stanze della casa in cui viveva la nonna.
Me le immagino accartocciate nel buio, fredde, avvolte nella nebbia, con minuscoli spiragli di luce che filtrano dalle imposte solo nei giorni più soleggiati. Ora me le immagino piene di polvere e ragnatele, quelle stanze.
Sono passati un po’ di anni da quando nonna ha lasciato la sua casa e quelle stanze, i suoi oggetti di valore affettivo, i suoi mobili, i fiori sul tavolo, le fotografie che poi mia madre e mia sorella hanno raccolto e conservato.
Nonna ha lasciato casa sua quando già non comprendeva bene che piega stesse prendendo la sua vita, quando già qualcosa dei ricordi del presente cominciava pesantemente a sfuggirle di mano.

Negli ultimi tempi non ricordava perché fosse a casa con noi, quando è diventato impossibile lasciarla sola. E all’inizio ci chiedeva quando sarebbe tornata a casa sua. Tra le sue foto, i suoi ricordi, le sue pareti.
A poco a poco ha cominciato a dimenticare quella domanda, a non porsela più, come se quella casa, insieme a lei, pian piano stesse svanendo dai ricordi. Come se una parte di lei e della sua vita stesse in qualche modo salutandola.
Quelle stanze, ora vuote, le ho riviste ultimamente. Le ho viste nei sogni, oppure quando mi fermo a immaginare come siano adesso. Quando rivedo quelle mattonelle verdi sgangherate, il mobile su cui era poggiato il telefono, la bilancia di quelle antiche con il pesetto che si spostava per misurare, rivedo un passato che non esiste più.
E come potrebbe esistere ancora il passato? Si tratta di un tempo andato, di giorni e ore che non possiamo toccare come fossero oggetti. Eppure quei giorni, quelle ore, quei mesi, quegli anni rappresentano la parte migliore di noi.
Proprio per questo faccio fatica a comprendere come si possa diventare schiavi degli oggetti, circondarsi di cose costose, di case enormi che poi non vengono vissute. Mi dispiace moltissimo quando la vita e il tempo di una persona si riducono a una somma di oggetti di cui volersi vantare, di una somma di mobilia da mostrare.
Mia nonna ha sempre avuto pochi oggetti, le cose necessarie e indispensabili. Conservava addirittura il pane raffermo per non comprarne inutilmente altro se non le serviva.
Mia nonna mi ha insegnato il valore delle cose, e il valore del nostro tempo.
Il fatto che il suo ricordo sia ancora vivo mi dimostra che quello che resta del passato è una traccia indelebile. E quella traccia non ha prezzo, non ha tarli, non ha macchie da pulire, non ha una fine.
Penso poi a quale valore possa avere la casa per ognuno di noi. Quali ricordi associamo alle nostre stanze, alle nostre ore. Perché la casa non è solo l’altare dei nostri bisogni indotti ma la culla dei nostri momenti di tristezza, amore, rimpianto, rimorso, dolcezza, allegria.
Nei miei ricordi, ad esempio, c’è spazio anche per la casa della mia infanzia. Quando l’ho dovuta lasciare pensavo che sarei stata inconsolabile e che nessun altro posto mi sarebbe piaciuto come quello, e invece i luoghi in un modo o nell’altro continuano sempre ad appartenerci.
Non perché ne siamo i proprietari, ma perché i ricordi restano anche se non li incarti negli scatoloni.
I luoghi ci traghettano, ci fanno vivere. E ci saranno sempre stanze piene da ricordare, e nuove stanze vuote da riempire.
Chissà, forse le stanze della nonna che adesso sono vuote stanno vivendo già una nuova vita. Magari adesso si preparano ad accogliere nuova luce, ad aprire le imposte al sole, a contenere il tempo di altre persone e altre famiglie.
Il bene più grande che abbiamo è il tempo. Il tempo passato nelle nostre case ci aiuta a cogliere la bellezza dentro i nostri luoghi e anche fuori.
E lì fuori c’è il luogo dei luoghi, il nostro posto per eccellenza. Quello da rispettare come fosse la nostra casa: perché lo è davvero. Gli alberi, la natura, i posti che possiamo vedere ed esplorare.
La casa è il tempo che coltiviamo con cura. La casa non è solo un recinto o un luogo circoscritto di cui rivendicare il possesso. La casa è ogni luogo in cui possiamo custodire i nostri ricordi e il nostro tempo e costruire nuovi ricordi e un tempo nuovo.
Per capirlo, a volte, impieghiamo una vita intera. Sarebbe bello invece, arrivati alla fine, esclamare “aaahh, ora finalmente ho capito!” e poter ripartire daccapo.

Laura Ressa
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